Là
di fronte 30.000 tifosi catalani mi sbattevano in faccia, aiutati dagli altoparlanti dell’Empire Stadium di Wembley, tutto il carisma di un cantante
pop inglese e una soprano spagnola. Due vere leggende, mica due mestieranti. Forse,
a posteriori, dovevo rendermi conto da questo che la serata assomigliava molto
a una di quelle sbagliate. Quella però era la Sera del Sogno; la sera che, tanti di noi, si erano guadagnati dopo una
battaglia con i Serbi della Crvena Zvezda a Sofia e in campo neutro: in un
pomeriggio di guerriglia, in molti sfuggirono alla furia della tifoseria Slava, agli
albori di una guerra civile, rifugiandosi in una chiesa. Eliminati i detentori biancorossi che
schieravano “robetta” come Belodedic, Mihajlovic, Jugovic, Pancev e Savicevic, alle 19 del 20 maggio 1992 ora di Greenwich in Terra d'Albione eravamo
al cospetto del Trionfo. Così, ai Catalani rispondemmo in altrettanti 30.000,
cantandogli in faccia “Siamo l’Armata Blucerchiata” con le vene del collo a
scoppiare, convinti di poter vincere la prima Coppa dei Campioni della nostra
(e loro) storia. Era la Sera del Sogno ma anche la rivincita sul destino. Due
anni prima a Berna, Salinas, Lopez Rekarte, Guardiola e buona compagnia ci avevano praticamente
asfaltati e si erano presi quella Coppa Coppe che noi pure ci saremmo presi a
Goteborg, l’anno successivo, contro De Moos e il suo Anderlecht. Ma quella sera
era diversa: stavamo respirando, inebriati, tutta la leggenda di Wembley e la
Sampdoria era in formazione tipo. Con “quei due” là davanti e Toninho nel mezzo,
con lo Zar e Moreno a far la guardia a Pagliuca. Mica come in Svizzera, che
eravamo tutti infortunati. Ancora una volta la Gradinata Sud in trasferta. Più
della Gradinata. Perché 30.000 persone mica ci stanno nella Sud a Marassi. Uno
spettacolo fantastico. Paolo Mantovani ci aveva insegnato che si tifava a
favore e mai contro. Vincendo, si mise nella condizione di essere credibile e
convincente: il tifoso Sampdoriano sapeva cantare. Mezzo Empire Stadium era
Blucerchiato. Entrano in campo. Inni Nazionali. Tuffo al cuore. L’orgoglio di
portare al collo questi colori magici che sanno far venire i brividi. Il punto
più alto della storia Blucerchiata dal 1946 ad oggi e chissà per quanto tempo avanti. Confesso che dopo il fischio d’inizio ricordo pochissimo questa partita, né mai ho voluto rivederla registrata. Certo, i due
goal sbagliati di Vialli e la sua sostituzione per crampi. Poi, solamente i
lampi di migliaia di flash e l’aria spostata dall’urlo immenso, disumano, della
curva di fronte quando Koeman ci strappò il Sogno dalle mani. Fu tremendo
vivere quei quattro minuti che restavano alla fine del secondo supplementare.
Mi sentivo andare lentamente in frantumi. “Grazie Ragazzi! Grazie lo stesso!” 30.000
voci strozzate dal pianto. Mica vero: fanculo la Coppa. Fanculo Londra. Fanculo
tutto il resto, Scmhiduber compreso che Invernizzi mica aveva fatto fallo. Pure al viaggio in parte e forse senza scherzare già
pianificato per Tokio. Luca Vialli l’indomani partiva per Torino e Fausto
Pari se ne andava a Napoli. Fine della
storia e senza happy end. Lo sapevamo tutti. Le imprecazioni, i rimpianti, le
lacrime e il peso di un amico, praticamente distrutto, da trascinare a spalle
fuori lo stadio, verso il bus che ci avrebbe riportati all’aeroporto. Appena dopo aver preso posto, sale un tipo che
se ne esce con un “Va ben figgieu, ‘sta belin de cuppa a guagnemmu l’anno che
vegne!”. Dal cuore, ma proprio dal profondo, mi è partito un “Ma vai a fare in
culo pure te!” che mai mi diede tanta soddisfazione. Giunti a Luton, avremmo
scoperto che il nostro volo sarebbe ripartito il mattino dopo alle 6 anziché
alla 1 prevista (non potevamo sapere ancora che il nostro volo sarebbe stato anche
dirottato a Torino). La notte fu in bianco e all’addiaccio, fuori dal terminal,
niente bevande e niente cessi. La maniera migliore per ricostruire mille volte il film della
partita e riviverla come un incubo devastante: finiva sempre allo stesso modo col Mancio in lacrime al centro del campo
e “Boso” a consolarlo. Assomiglia moltissimo alla sigla finale della mia
gioventù, il tempo in cui tutti i sogni hanno la forza di trasformarsi in
realtà. Il ritorno a Genova è stato devastante. “Quegli altri”, quelli abituati
da sempre a godere più delle nostre sconfitte (qualcuna) che delle loro vittorie (nessuna), ci
aspettavano al varco nella nostra città. Dopo 26 ore senza sonno, con i cocci
di un Sogno infranto tra le mani, ecco gli sfottò da affrontare. Li chiamano
sfottò parevano… coltellate! Dopo “l’Amaro
aBerna”, credevo di aver passato tutto. Non era così. Ripensandoci, a ventuno
anni di distanza, mi sale ancora il magone. Il tifo, anzi la fede, non si
perde. Si pensa di crescere, di cambiare. Si cerca di assumere opinioni distaccate
ma finte come i soldi del Monopoli. Perché non è mai così. Resta tutto nel
cuore e a ricordare fa ancora malissimo. Ancora oggi ho negli occhi uno
striscione “Né rabbia né dolore, solo
grazie per il cuore”. In fondo, mica è stato male arrivare ad un passo dal
Sogno. Ma no… fanculo.
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